sabato 24 marzo 2012

Mio fratello.

Per anni avevo cercato di convincermi che non odiavo mio fratello, o almeno che non lo odiavo perché ero gelosa di lui. Quel 24 Marzo, alzandomi da tavola dopo un pranzo dai toni burrascosi, mi resi conto che invece le cose stavano esattamente in quel modo. 
La gelosia che provavo nei suoi confronti però era diversa, non era il residuo di un mancato affetto da parte del genitore preferito durante la tenera età, anche perché l'ultima nata e forse la più coccolata nei primi anni di vita ero stata io, ma si trattava di qualcosa di più profondo e di conseguenza anche più difficile da sanare.
Mio fratello era "il nemico", in qualsiasi situazione. 
Non è mai cresciuto undici anni più avanti rispetto a me, è sempre rimasto un po' indietro, coltivando più il suo lato da bambino pestifero che quello maturo, non facendosi mai carico di una responsabilità. Quando ero piccola mi trattava come una coetanea, facendo la lotta con me, rubandomi i giochi e il telecomando, chiamando la mamma e dandomi la colpa di qualsiasi cosa lui avesse fatto. Ha avuto sempre la ragione dalla sua parte, anche quando non ce l'aveva. Manipolava già allora, ingannava, mentiva, rigirava la frittata addossando sempre la colpa su qualcun altro, disonestà e bugie sono sempre state il suo pane quotidiano. 
Ora di anni ne aveva trenta e non era cambiato di una virgola.  La sua insopportabile ostentazione di sicurezza di sé e di autostima, la sua arroganza nella convinzione della sua superiorità intellettuale, il  suo sminuire costantemente gli sforzi degli altri e il calpestare chiunque senza farsi il minimo scrupolo andavano di pari passo con la sua disoccupazione. Erano, cioè, costanti. 
Aveva trent'anni e per laurearsi ce ne aveva messi dieci, giocando col suo ruolo di mantenuto e alternando intere giornate di pigrizia fra il letto e il divano a infiniti viaggi intorno al mondo.
Aveva trent'anni e fare il mantenuto gli piaceva ancora da matti. Seguendo la scia della fuga dei cervelli aveva voluto frequentare gli ultimi anni dell'università all'estero e una volta finita e trovato qualche lavoro molto ben retribuito aveva giustamente deciso di spendere tutti i suoi guadagni nella serie completa dei gioiellini di casa Apple e in Fender Stratocaster provenienti direttamente dall'America. Tanto a pagargli vitto, alloggio e ogni altro vizio continuavano a pensarci i nostri poveri genitori. 
Gli piaceva giocare al genio sregolato, allo spirito libero. 
Non puoi essere credibile se ti fai ancora mantenere da mamma e papà.
Mia madre era vittima del suo incantesimo. Imbambolata dalla sua testa brillante non vedeva tutta la meschinità del suo essere e continuava a difenderlo sempre, da tutto e da tutti, a considerarlo "solo sfortunato" nel trovare lavoro. In realtà di lavori gliene piovevano in testa ogni giorno, ma non avrebbe mai potuto accettarli, ogni scusa era buona: quello gli offriva meno di quattromila euro al mese e Milano non gli piaceva, quell'altro non gli faceva fare il capo progetto, l'altro ancora era noioso e così via, verso la strada della disoccupazione.
Una settimana fa il mio professore di Diritto Privato parlava dei bamboccioni. 
La prima persona a cui ho pensato è stato mio fratello.
Era così difficile da capire che sarebbe bastato smettere di mettergli soldi in banca ogni mese per fargli muovere il culo?
Non ce la facevo più. La crisi che aveva avvolto il paese stava piombando lentamente anche su di noi e lui passava le giornate a poltrire sul divano davanti a History Channel, suonare la chitarra e lasciare a secco il mio motorino. Pensava di continuare così per tutta la vita? 
Io non vedevo l'ora di rendermi autonoma per non dover rendere più conto a nessuno delle mie (devo ammettere) tante spese, e lui, che già si era laureato nel doppio del tempo per passare anni di bagordi sulle spalle dei miei, sembrava non essere neanche sfiorato dal pensiero. Era solo il mio primo anno di università e avevo molte ambizioni, molti desideri per il mio futuro. L'obiettivo di fare carriera non era solo il suo. Sapevo di avere tutte le carte in regola per potermi affermare nel mondo del lavoro, quello che avevo paura mi sarebbe mancato erano le opportunità, le infinite opportunità che lui, il mio nemico, aveva avuto. 
I viaggi, i mille corsi di lingue, l'università all'estero, i miei gli avevano sempre permesso tutto perché si trattava di cose che avrebbero formato la sua mentalità in modo permettergli, in un futuro che forse non immaginavano così inavvicinabile, di raggiungere una buona posizione lavorativa.
Finora avevo voluto convincermi che prima o poi sarebbe arrivato il mio turno, che avrei potuto essere anch'io mantenuta e viziata in qualche facoltosa università al di fuori dei confini nazionali, che avrei potuto usufruire di master e quant'altro, ma ora, in un'Italia guidata dalla politica dell'austerità, per le illusioni non c'era più spazio. La verità era che non avrei mai fatto il percorso che aveva fatto lui, anche se io, al contrario di lui, avrei saputo sfruttarlo.
Odiavo mio fratello perché ero gelosa sì, ma non tanto dei miei, quanto di tutte le esperienze che i miei gli avevano permesso di fare e di tutte le bellissime opportunità che aveva buttato nel cesso.
Odiavo mio fratello perché continuava a gravare pesantemente sul nostro bilancio familiare solo per la sua indolenza e la sua bighellonaggine, quando ora toccava a me, era su di me che miei avrebbero dovuto investire.
Odiavo mio fratello perché rappresentava tutto quello che io non avrei mai avuto, perché ormai se l'era preso lui e continuava a prendere, ogni giorno. 
Ogni giorno.